venerdì 15 ottobre 2010

BONAVERO - TESTO ARG - tema n. 1

Burqa:religione al servizio dell'oppressione femminile
No al Burqa:rischio diplomatico o rivendicazione di libertà?

Innanzitutto ci tengo a precisare che secondo me nessuno ha il diritto di manifestare la propria ideologia più di uno straniero solamente perché la propria cultura è più radicata nel passato storico della nazione in cui si vivono entrambi.
Non intendo perdere tempo a considerare posizioni che rivendicano “diritti di precedenza” della propria cultura nei confronti di un’altra perché in uno Stato i cittadini sono tutti sullo stesso piano in quanto a diritti e doveri.
La questione europea del divieto del Burqa ha sollevato cori di protesta e di approvazione anche in Italia, dove le opinioni contrastanti degli schieramenti politici rispecchiano quelle della popolazione.
La pratica di indossare il Burqa nei Paesi islamici ha significati non solo religiosi ma è radicata nella loro storia culturale; sappiamo tutti quanto sia difficile estirpare pregiudizi che portano a discriminazioni oppressive (come il sospetto e la gelosia morbosa verso la donna) dalla mentalità radicale di una delle maggiori comunità al mondo. Spero che la cultura islamica abbracci al più presto il concetto dell’ igtihad, lo sforzo interpretativo dei testi sacri: purtroppo molti radicali sono contrari alla revisione della propria interpretazione e ciò si ripercuote su usi e costumi quotidiani della loro comunità.
A mio avviso è necessaria l’emancipazione da entrambe le parti: il riconoscimento di diritti fondamentali come l’uguaglianza e la libertà individuale da parte degli islamici radicali, e un adattamento delle leggi dello Stato italiano per tutelare le nuove cittadine spesso sottomesse all’autorità maschile della famiglia, senza dubbio una “gerarchia diversa dallo Stato”, come precisato dal Presidente della Camera Fini e sul blog “Giornalettismo”.
Il divieto del Burqa integrale non è così estraneo alla cultura islamica, infatti nel 1961 (prima del regime talebano) anche l’Afghanistan lo impose alle pubbliche dipendenti; è essenziale ricordare che in questo modo non le si spoglia della loro identità perché secondo la loro cultura religiosa ci si può ricoprire con differenti tipi di velo. Nell’ambito dell’insegnamento pubblico il divieto è in vigore anche in Svezia poiché si ritiene che l’educazione sia basata sulla comunicazione, altrimenti ostacolata dall’assenza della gestualità e dell’espressività del viso (non posso fare a meno di condividere l’opinione ricordando come l’occhiata di un professore possa essere carica di significato, il chè fa parte dell’esperienza comune).
Naturalmente ci sono molte critiche a questa proibizione, sostenute da motivazioni che riterrei anch’io molto valide, se non fosse che la difesa dei diritti umani deve essere posta davanti a tutto il resto.
Infatti è possibile che un tale provvedimento rischi di peggiorare le relazioni con i Paesi islamici in ambito diplomatico facendo un “regalo agli integralisti” (come temono molti socialisti francesi), o di “stigmatizzare l’Islam, espressione coniata dal CFCM (Conseil français du culte musulman).
Ciò che rischia di far vacillare la mia opinione è la tesi del partito “Sinistra Ecologia e Libertà” secondo cui “a norma di legge non sarà mai possibile modificare comportamenti radicati nella culture di origine. Ề il limite di ogni civilizzazione: ti impongo la mia verità con la violenza per il tuo bene”.
Tuttavia ci terrei a precisare che non considero il divieto come una manifestazione di ciò che può essere definito “fondamentalismo laicista” o come una reazione alla paura dalla “degradazione morale portata da influenze straniere” (come accusato in AnellidifumO’s blog); io stessa non condivido l’opinione xenofoba della Lega secondo cui il Burqa “è una pratica che non fa parte della cultura dell’UE”, dunque da bandire, perché se lo Stato è formato dai cittadini allora deve adeguarsi all’eterogeneità del tessuto sociale.
Anche nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è sottolineata la “libertà di manifestare sia in pubblico che privato, la propria religione e il proprio credo” (art. 18) , tuttavia questa è limitata “per assicurare la libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale” (art. 29). Infatti per questioni di sicurezza in Italia vige l’obbligo di essere sempre riconoscibili come imposto dalla legge 152/1975 della Costituzione.
Chiaramente, come ricordato da “Sinistra Ecologia e Libertà”, “siamo di fronte a soggetti che devono rendere conto di sé a contesti familiari e culturali, costante riferimento della loro vita quotidiana”; noi occidentali, con la nostra moda che va e viene, noi donne del viola come colore dell’autunno-inverno 2009/2010, dobbiamo sforzarci di comprendere che qui non si tratta di un semplice cambiamento di vestiti, di un “sbatti il Burqa nell’armadio ed esci libera in strada”.
Nel Paesi islamici, con il succedersi di regimi più o meno autoritari, sono state imposte leggi contrastanti (come l'obbligho o il divieto del Burqa), ma noi abbiamo il dovere morale di intervenire e gettare luce sulle differenze che ci distinguono dai regimi basati sul terrore e sulla strumentalizzazione religiosa. Anche a costo di correre rischi diplomatici è senza dubbio di maggiore importanza la tutela di queste nuove cittadine che, percependo l’intervento dello Stato come garante della libertà individuale, favoriranno l’integrazione e saranno pronte a collaborare nell’adempimento dei loro doveri nella vita associata. In questo modo potremmo ottenere frutti sia nel rispetto delle leggi comuni sia nell’eliminare un simbolo di soprusi psicologici che spesso sfociano in violenze fisiche.

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